“Voci ai confini dell’anima” di Maria Tosti

8 Novembre 2014

copertina maria tosti“Per quanto tu cammini, e anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima: tanto profonda è la sua vera essenza”.

Tali le parole del filosofo presocratico Eraclito nei riguardi dell’anima o, forse meglio, dei suoi confini possibili, ideali, reali o immaginari.

L’anima non sembra avere confini. O forse i suoi confini sono netti, precisi, marcati. Ma latenti. Invisibili e impalpabili come l’etere. Oscuri e improbabili come un abisso.

Perché chi può mai realmente conoscere la sua vera essenza? La sua natura? Il suo essere e allo stesso tempo, non essere? Di certo non un percepire e un sentire comuni. Non il tran tran quotidiano della vita. Non il rumore ossessivo e le luci violente del mondo. Di sicuro il silenzio della creazione e l’incommensurabilità dell’Infinito; l’entrata, allora, in una dimensione nuova e altra nella quale è la parola a prendere forma, ideale o metaforica, e a muoversi. Il poetare è un sentiero percorribile, in tal senso?

La Poesia è forse la strada, seppure non ogni strada sulla quale poter camminare, con un po’ di sicurezza, per poi sperare di raggiungere i confini dell’anima? Ci piace crederlo, o almeno pensarlo, o immaginarlo. Il titolo di questa silloge poetica di Maria Tosti è VOCI AI CONFINI DELL’ANIMA. In voci si sono trasformati i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue percezioni per far scaturire dall’anima le sue poesie, quasi sospese ai confini di un “territorio” senza confine.

Ella sembra voglia rendere palpabile ciò intercalando la diversità delle lingue e una concezione poetica appartenente a una tradizione lontana e del tutto diversa da quella dell’occidente. Infatti, nella sua silloge, vi sono poesie in inglese, in francese e in spagnolo scritte dall’autrice proprio in queste lingue ma soprattutto pensate in queste lingue, per cui il verso pare ergersi a dimostrazione dell’universalità delle voci che possono raggiungere (e raggiungono) i confini dell’anima, a sua volta ancora più universale per il suo modo di elaborare e “comunicare” al di là delle lingue. Ma vi è di più, in quanto sono presenti, nella silloge, anche degli haiku e cioè dei componimenti poetici tipici dell’antica cultura giapponese forte di una tradizione continuativa di secoli.

Maria Tosti

Maria Tosti

Sull’haiku, quale componimento poetico, ci sarebbe da dire molto, ma non è il caso né la sede per dilungarsi a presentarlo e a descriverlo con minuzia e dovizia di particolari. Mi limiterò solo a dire che l’haiku si compone di due tre versi al massimo, semplici eppure precisi, lineari; trasparenti come le acque cristalline di un ruscello di montagna a primavera eppure profondi e oscuri come le acque di un grande lago circondato da alte montagne. L’haiku ha origini molto antiche. La sua conoscenza e diffusione avviene tramite il Buddismo zen che ne ha fatto strumento di meditazione interiore, di raccoglimento silenzioso dell’anima per ascoltare, appunto, le voci fluttuanti, vicine e lontane, flebili o insistenti proprio ai confini dell’anima.

Cosa sente, ascolta, percepisce l’anima di Maria Tosti? Una voce innaturale al tramonto tra rami di alberi secolari. L’alba nello schiocco impercettibile di un bacio appena. L’amato che, come il sole, illumina di sé la vita di lei, mentre lei, come la luna, corpo che è illuminato soltanto dai raggi del sole, si riscalda e si perde in un suo abbraccio. Ma anche l’intramontabile tristezza di dolci ricordi quando piove sul mondo e il suo cuore ne è bagnato, in un autunno nel quale gli elementi della natura si scatenano con violenza quasi a voler scuotere e impaurire l’anima. Un giorno di speranza è sentito come un giorno senza tempo, assenza di dimensioni dove passato e presente si tendono la mano per un domani lieto carico di speranze.

Una corsa lunga per andare incontro alla libertà tanto cercata e il trasformarsi, correndo, nella natura libera, giocosa, ignara del male: aria, acqua, terra, fuoco; cioè il cielo, i mari e i fiumi, i prati, i boschi, i campi e le radure, la lava di un vulcano, la fiamma misteriosa nel buio della notte. I versi fluiscono nell’incespicare di un momento o di un vissuto. Corrono per carpire, guardare, cogliere, assaporare. Si perdono anche. Non ascoltano in tutto e per tutto. Non sanno o non riescono, a volte, ad ascoltare. Qualche volta una poesia cade su un terreno scivoloso e umido, troppo duro e acido, rischia persino di precipitare da grandi altezze e di schiantarsi al suolo. Però si solleva e prosegue il cammino, anche stanca, anche ferita, anche inseguita da un nemico sconosciuto. Quanto sono estesi i confini dell’anima? E quanto le sue voci vi sostano? Forse all’infinito. Forse il passo di un pulcino.

Forse meno di un’unghia e più dell’oceano. E le voci sostano un anno o un secolo, vari millenni; il tempo di imparare a piangere o a soffrire; il tempo di un sorriso che porta la gioia; un istante che non si riesce a cronometrare; un istante senza fine. Passano i giorni, trascorrono gli anni. Una poesia li restituisce nel ricordo. E quando la memoria si perde tra il candore dei capelli, il verso di una poesia, una poesia composta dai suoi propri versi conserva e libera l’essenza vera della vita intera e piena.

Francesca Rita Rombolà

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