Riflessioni minime su “Figli di Terracotta” di Katia Debora Melis

3 Aprile 2017

RIFLESSIONI MINIME SU FIGLI DI TERRACOTTA” di KATIA DEBORA MELIS – Ediz. THOTH (2016)

Immaginiamo di trovarci di fronte un grande casale costituito da 5 ampie stanze: ‘Contemporanea’, ‘De malo e bono’ (il buono dal cattivo), ‘Medicamina’ (farmaci), ‘De Amore’ (amare), ‘De somniorum fragmenta’ (i sogni infranti).

È ‘Contemporanea’, la prima grande ampia sala interna che si presenta al nostro sguardo di lettori; una sala – provate ad intravederla solo per un attimo – che ha delle grandi vetrate ai lati dell’ingresso, da cui si entra attraversando un portico con colonne classiche di stile corinzio.

È da qua dentro che la Poeta scruta il mondo d’oggi e che, da esso, ne assorbe i colori, fermando la vista sul divenire del tempo e scorgendo le convergenze relazionali tra ciò che la circonda e ciò che sente interiormente.

È questo il ‘locus tempus’, per rimanere nell’accezione latina da lei usata, il luogo verso il quale s’affaccia al tempo ma, allo stesso modo, quello dal quale si sottrae, come un diaframma espanso e contratto a seconda del sentimento vissuto.

Il passaggio del tempo scorso non è, quindi, neutrale.

Lo si vede come “…un vecchio quartiere quasi abbandonato” (in ‘Neanche le farfalle’) oppure come il terreno nelle cui profondità “il seme dei nostri giorni latita” (nella poesia ‘Sotto’), in una dimensione temporale annichilita e annichilente.

Si  cercano speranze e  immaginazioni in questa stagione contemporanea che poi, al confronto con la realtà, vive di “rituali apparentemente fissi e formulari presi in prestito da noi, si finge e sfugge, a volte sorridendo falsa, a volte mostrando cicatrici di memoria” (in ‘Suggestioni’); è da tale incontro col contemporaneo che l’humanitas si trova ingerita, seviziata, deturpata, immobilizzata e da cui la Poetessa, contrita interiormente, riconosce “tutto il senso del ridicolo che è in noi”(in ‘Lamentazione’), attestandone un valore tragico e richiamando alla mente i tanti accenti ungarettiani presenti in “L’Allegria”, dove la fibra umana sente, subendo, “tra il fiore colto e l’altro donato l’inesprimibile nulla[1].

Ma l’Eterno di Ungaretti è un tempo dilatato, straniato, come l’uomo che lo vive, o meglio, che gli sopravvive; ed è in questa forma che riecheggia nei versi della Nostra, dove ciò che è eterno è quel tempo depersonalizzante che viene sentito, ma non vissuto; viene incrociato, ma non afferrato, svelandone la problematicità esistenziale.

C’è poi una dimensione relazionale, esplicitata in più d’una lirica, dove si conosce il proprio sentire dal rapporto con il collettivo verso il quale apparteniamo.

Il proprio cuore e sorriso, intesi come unità, “vola via dissolta dalle ombre cariche di lacrime degli occhi del mondo” – in ‘Linfa nera’ – oppure, come sempre in ‘Lamentazione’, l’enorme parete presente (una visione metaforica del mondo d’oggi, vissuto come ostacolo) scopre tutta la fragilità umana, personale e collettiva, che l’autrice riconosce nel senso del ridicolo di cui prima parlavamo, e che fa dell’uomo un reduce di questo tempo.

La consonanza con l’homo naturalis, che la poetessa ricerca strenuamente nella dialettica dell’anima personale [2] col mondo, è perduta, perché il con-temporaneo è ‘altro da me’, non abitante lo stesso tempo – come invece il termine specifica – idealizzato dalla scrittrice.

Ed ecco allora la figura umana essere vista come strumento di questo tempo, del quale la luce riflessa lascia solo i contorni della propria es-istenza, dandone con-sistenza tramite ‘il raggio che profila ogni forma’, dove le ombre stesse “sono poco meno che buio” rispetto alla dimensione desiderata (in ‘Le ombre’).

Ma è rientrando dentro se stessa, con un processo simile a quello di agostiniana memoria, che la Poeta trova le stanze dell’interiorità, quelle che la conducono ad un percorso di maggior auto comprensione.

De malo e bono’ (il buono dal cattivo) è il ‘locus award’, il luogo del riconoscimento, capace d’ instillare il primo graduale passo verso quei contorni umani lasciati in ‘Le ombre’.

Siamo in un’ampia sala ordinata, con una grande libreria antica. Una poltrona sola è presente, di pelle blue scuro, sulla quale l’autrice sta scorrendo le foto dei periodi critici della sua vita, ritrovando in ciascuna un elemento di ricordo nostalgico, positivo, che lo ha caratterizzato.

Non siamo più nel contemporaneo, siamo invece nel tempo della memoria, ed è qua che l’anima si riconosce e trova spazi di ricordo, vivendosi intensamente i sentimenti dell’umana com-passione.

Questa vitalità è sottolineata anche dall’uso nuovo dei verbi – che passando dall’impersonale della raccolta precedente al personale di questa – non più subiti, quindi, ma agiti e sostituendo una visione passiva verso il mondo con una positiva – permette di recuperare parti di una dimensione soggettiva dell’io poetico.

Come scorrono le foto, scorrono anche le memorie e sono proprio qui le caratteristiche principali di tale raccolta: la dinamicità e l’azione attiva, come dicevamo.

I canti di voci bianche” introducono all’ Inverno, nel candore delle neve che, forse non a caso, rispecchia i sentimenti più puri di tale raccolta, dove l’acqua che si muove “sfiora e scava come la colpa nel cuore dell’uomo creando monumenti di buio” (in ‘Movimento’) o dove si erge la figura del poeta come quella dell’eroe alle prese con tante piccole guerre ‘interiori’ – in ‘Avanguardia’: “tu la spegni, tu l’accendi fino a farne vibrare la pelle”, come creatore lirico.

Ma è nel ricordo, come dicevamo, che queste particolarità vengono poste in luce.

Memorie’ è un esempio limpido di ciò, tra i quali versi, la poeta, invita a “non mettere troppe sbarre al cuore, far filtrare emozioni”, probabilmente dopo aver toccato il vissuto della Shoa, che anche nella poesia precedente è ricordata.

Ma nel ricordo dilaniato, annientato, fa capolino anche la ‘Follia’, che “colorati bagliori del cuore pezzi d’amore indiscreti diventano vento scrosciante che accarezza incessantemente sconosciuti sassi”; è su questa dimensione insinuante del dolore che si cerca il ‘buono dal cattivo’, in un opera non facile che segna l’anima poetica nell’estrinsecazione piena, pena la sofferenza dell’incompiuta.

In ‘Com’è difficile’, il dolore c’è ma non è riconosciuto. Si sente l’aria che lo avvolge, lo si vive nel cuore e nei versi della nostra, ma è alienato da una reazione: “quanto è difficile il dolore, quanto è difficile prenderne la pelle e farla urlare con labbra gonfie d’amore alla vita”, per riportarci alla finitezza umana del sentirlo, riconoscerlo, eppure non poterlo manipolare come si vorrebbe.

Quasimodo, parla come la poetessa, di qualcosa che si avverte ma che non ha forma e, da qui, l’impotenza umana nella sua limitatezza, perché “dolore di cose che ignoro mi nasce: non basta una morte se ecco più volte mi pesa con l’erba, sul cuore, una zolla[3]

Questi squarci  d’anima, così vividi, vanno ricongiunti all’esperienza; la poetessa cerca di darne nuova vita, curandoli con amore e facendone nuove sponde da raggiungere.

‘Medicanima’ è la stanza dove ciò idealmente inizia, quella del ripiegamento verso se stessi, il ‘locus curatio’.

Ha una grande vetrata posta ad Occidente, dove la Nostra incontra con lo sguardo il mondo circostante e lo vede spegnersi al tramonto ogni sera.

La porta della stanza si apre con ‘Inverno’, ancora una volta a dimostrare il raffreddamento che investe l’anima: “sono rimaste scoperte, al freddo, varie regioni della mia anima che ora mi chiedono ferocemente aiuto”; è una viva e trasparentemente richiesta di cura per l’anima poetica. Sarà il sostare in questa stanza, osservarne i riflessi e i movimenti vitali della natura da tale vetrata a ricostruirne percorsi interiori più caldi.

È là che l’anima ritrova gradualmente, e pieno, il sentimento dell’appartenenza, come quando riconoscendosi nel tremolio del pino, desidera “la stessa voglia di una tenera carezza che ci sa dare il vento” (in ‘Tremolio’); oppure quando nasce il confronto tra l’intangibile esperito dall’albero “assorbe in silenzio vita dall’aria, si riempie di sole, lo cerca, lo abbraccia” e il tangibile desiderato dagli uomini “mentre noi cerchiamo i baci e le carezze” (in ‘Una vita illuminata’).

Ma la presenza del desiderio è già indice di un riappropriamento della propria dimensione e del proprio tempo, inizialmente in-animato, là dove la cura ricuce significati e senso, alimentando l’homo naturalis tra i versi poetici.

In ‘Vorrei avere’, la visione  dell’amato passa dalla profondità rilevata nello sguardo “brillare stasera al parlare con versi potenti”, alla ricerca di una luce e completezza maggiore in un momento successivo, “illuminati oggi dal tuo sorriso nuovo”.

Il desiderio qui non è nulla di riconducibile alle richieste materiali del mondo, ma è una ricucitura dell’anima verso lo stato naturale delle cose, quelli che Epicuro chiamava desideri necessari [4], in quanto fondanti uno stato d’animo di benessere.

I verbi presenti in questa terza raccolta, nelle loro coniugazioni, ‘permettere’, ‘sbocciare’, ‘provare’, ‘dare’ – e la ‘voglia’, più volte ripetuta, presente in ‘Provo a darti per  talea’ – richiamano a questo tentativo di colmare e raggiungere il desiderio “che ogni giorno rosicchio a un mondo che non conosce più equilibrio di stagioni”, perché la Poeta con la sua partecipazione sta tentando di ‘animare’ il tempo, di pervaderlo, appartenendovi.

Dalla parte opposta della sala, salendo delle scale strette e a gradini alti, si arriva ad una porta non tanto grande che apre al ‘locus amoris’, una stanza piccola, con colori pastello e tanti oggetti diversi disposti qua è là a riscaldare il vissuto della Nostra.

Il ‘De amore’ della raccolta vuole introduci nello spazio più personale, più intimo, dove la relazione con l’altro si rivela nell’uso del ‘ti’, ‘te’, ‘tuo’, ‘Tu’ , presenti nelle diverse poesie.

Il tema è quello dell’amore, com’è facile comprendere.

Chi entra nella stanza, come nel passaggio fra le due stanze precedenti, si porta dietro l’aria ‘desiderante’ che aveva avvolto Medicanima, esprimendo nell’assenza di sensazioni legate all’arrivo di Maggio, una mancanza interiore da colmare, certo che “dovrai ancora aspettare un’altra fioritura” (‘Maggio’).

In ‘Oltre la primavera’, le categorie ‘decenza’ e ‘indecenza’ che “sono libere compagne oltre la nostra primavera di riccioli belli cantati alla luna”, sfiorano l’immagine filosofica nietzschiana de ‘Al di là del Bene e del male’, quando l’autore dice nella sua massima che “ciò che si fa per amore, lo si fa sempre al di là del bene e del male” [5] le due categorie opposte sono qui il tramite dell’incontro, i pilastri sotto il quale l’arco contiene l’incommensurabilità dell’amore, rappresentata dai “riccioli belli cantati alla luna”.

E l’amore è tale e forte anche nell’anticipazione dell’assenza – o forse nella sua stessa posticipazione alla memoria – nel permettere di stringere “di nuovo come sassi da scagliare in riva al mare le tue mani” – in ‘D’improvviso’- che portano il desiderio della pienezza, quello del sentire le mani dell’amato nelle proprie, strette, prima di trasformarsi in sassi che non appena lanciati in mare, non vi faranno più ritorno.

Ritorno che non potrà più essere, come in ‘Ho risalito il tempo’, dove il migrare nei tempi passati dentro l’amore ha soltanto fatto si che la Poeta abbia “asciugato un sentiero di lacrime a ritroso”, e dove rimangono oggi solo orme di quel passaggio con l’amato; “ti ripercorro e penso che non restano che ciottoli e sassi levigati da lacrime e abbracci” (in ‘Solo ciottoli e sassi’).

L’amore che non si riflette più nello specchio, la mattina appena alzati; ma un amore che è come l’odore, acre, forte, che si respira aprendo un armadio di noce antica chiuso da molto tempo.

Nel vuoto di quell’armadio, abbandonato dal tempo, tra le grucce rimaste spoglie, “resta la risposta dell’assenza che brilla forte accesa più bella di ogni presenza” (in ‘Cade dal cuore’).

Neanche…potrei ancora almeno dormire tra le braccia del tuo ricordo”, scrive in ‘L’infinità del cielo’, con una strepitosa sigizia di avverbi: ‘ancora’, come nel tentativo di volerlo riproporre e ‘almeno’, come nel desiderio di accoglierne l’essenziale necessario, per cercare di trattenerne il ricordo.

Il niente che rimane, l’assenza di un sentimento amoroso così forte, che fa vibrare la nostalgia dei versi della poeta “è cos’e niente!”, come diceva Eduardo de Filippo in una celebre commedia[6]; anche nelle situazioni più delicate, più fragili e più potenti, come l’amore e la sua assenza nei versi delle poesie appena accennate, l’autrice fa di quel ‘niente’ l’involucro sacro dell’amore e del suo ricordo.

In ‘De somniorum fragmenta’, il ‘locus de separatione’ assomiglia al balcone perimetrale del casale; è il proseguimento ideale del locus amoris, che da esso si emana, ma dal quale è possibile operare discernimenti, trovare il ricordo del gusto dei sogni, ma anche il retrogusto di ciò che è stato maturato e di ciò che si è perduto, infrangendosi e disperdendosi come polvere al filtrare dei primi raggi mattutini nella camera.

Ed ecco quel balcone, sorretto dal sentimento dell’amore dal quale si affaccia, protendersi verso l’esterno, in una relazione col mondo che corrisponde anche al rapporto tra l’Anima e l’Io della Poetessa.

Sono i predicati ad aprirci alle relazioni linguistiche e capaci di creare, al contempo, una compiutezza di senso nelle liriche.

In ‘Leggere’, ad esempio, il verbo stesso è un predicato implicitamente relazionale: denota una capacità di distaccare l’immaginario dal reale, per ridefinirne i rispettivi spazi in una riflessione mentale; quest’ultima ha in sé l’opportunità di lasciare scenari ampi e separati ai due topoi, grazie al quale investire “i sogni di un’ambiziosa libertà”.

Ma sono diverse le particolarità, oltre questo verbo – nonché titolo della lirica medesima -, che ci permettono di scoprire in quest’ ultima raccolta, la possibilità della scoperta (e dello scoprirsi) della Nostra.

Per 10 volte in 23 liriche, tra titoli, verbi e derivati, compare la parola il cui termine fondante è pensiero, come ad esempio in ‘I miei sogni’, dove si avverte proprio la disgiunzione dell’immaginario dal concreto, che è poi ciò che resta: “sono  rimasti pensieri rubati dal tempo”.

Ed è una disgiunzione che affiora in tante liriche di quest’ultima raccolta, sottolineata anche dalla presenza del termine ‘ricordo’ alternato a ‘memoria’, che accompagnano alcuni versi e ripropongono il valore del vissuto come il sé da cui ripartire, da cercare in ‘Ogni momento’, come “domanda che si ripropone… [ e che] si rivela forse solo all’ultima della sera”.

Ma è sempre la dimensione relazionale ad essere continuamente richiesta dall’autrice.

Il ‘Mandylion’ – che è un termine di estrema ricercatezza e raffinatezza in un contesto lirico – è quella forma del sacro dove l’autrice si riconosce come tesa a ricercarsi e a trovarsi nella sua scarna essenzialità esistenziale “aggrappata alle pagine…[per cercare] la rappresentazione del mio essere”; oppure ancora in ‘Aurora’ , quando scrive della propria (forse) “immagine leggera proiettata sullo schermo della notte”; oppure ancora nel riconoscimento nell’abilità del poeta di essere “la dimensione stessa dell’Idea”, e il cui ispirarsi, nella “quanta profonda notte l’attraverserà nelle vicende che oggi sono solo sue parole” (in ‘Ogni poeta è’), ci aiuta ad instradarci lungo il processo di comprensione dell’Anima poetica della Nostra e del suo ruolo per il mondo, certo, ma denuncia anche la condizione di primitiva fragilità di chi scrive, il cui compito è al contempo scandito dal manifestarsi della propria fragilità e dalla direzione alienante e depersonalizzante che egli vive nella stesura dei componimenti.

La poesia è la fonte di sincerità per la Poeta, spudorata, perché “non guarda in faccia a nessuno perché dice ciò che vuole e lo dice come vuole” (in ‘Spudorata’).

La felicità, là dove manca, è comunque e sempre il frutto della realtà e delle vicissitudini della quotidianità, verso la  quale “mi astengo dal violare nei fatti la vita” è un monito personale e di rispetto verso la vita stessa  della Nostra che, con sensibilità e intelligenza, sembra prospettarci, con una metafora, una visione d’intenti alternativa, forse, per ritrovarla: “oggi apro una finestra nuova su un muro che è sempre lo stesso”; l’interpretazione è al contempo leggibile sia in chiave possibilistica che in quella pessimistica.

Una nuova visione delle cose che appare anche tra i versi di ‘Con occhi diversi’, dove è un bambino a prendere il centro dell’interesse, lasciando sbiadire ciò che c’è intorno.

Restano aggrappate al ‘tempo interno’, e ci rifacciamo a Sartre,  le immagini di quelle domeniche estive sudate con i familiari, dove il Nonno – “colui che compie i suoi gesti con certezza perenne” (da ‘Brucia le pietre’) – è l’assenza ‘presenzializzata’ dall’immagine [7]. In ‘Non ho che il sole’, la Poeta si affaccia probabilmente al ricordo di un balcone-altro, che ergendosi ad altezze diverse, le fa vedere “volare lontane le linee di terra che confortano la vita”, in un nuovo evento luttuoso carico di nostalgia e amore per la propria terra che verrà meno da quel momento; come anche in ‘Radicare’, il desiderio impetuoso di fruttificare la propria esistenza “per fare fronde e fiori dai colori che ho vissuto e che ho scritto in ogni giorno che soffiata dal vento sono volata via”. Sentimenti vivi che sono carichi dell’assenza, vissuta da lì a breve o già elaborata dal tempo, che ne ha tolto la presenza facendone attualmente  il nulla che riempie e partecipa alla determinazione dell’essere poetico che lo scrive in quel momento, nel ricordo [8].

L’infrangersi dei sogni, come in un aereo in viaggio in ‘Non ho che il sole’ o come in una ‘Clessidra di pietra”, è il mantenimento di questo ‘locus conspectu’, della presenza, così caro ai ricordi, dove “la stessa polvere li avvolge, non li scalfisce il tempo”, a riempire l’essere e darne una nuova, più complessa e consolidata fondatezza.

L’homo naturalis, in quest’opera, è stato soddisfatto dalla pienezza dell’anima, concessasi nei versi delle liriche; ha dilatato lo spazio-tempo per poi gradualmente riappacificarsene con il progredire della stessa; eppure, per la Nostra, rimarrà una nuova mancanza e, ancora, un nuovo spazio da riempire. Alle opere prossime tale compito.

Si sentono lontane due voci confabulare in direzione del balcone del ‘De somniorum fragmenta’.

NATURA: “Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi e sii grande e infelice

ANIMA: “Che male ho io commesso prima di vivere, che tu mi condanni a cotesta pena?

NATURA: “Che pena, figliuola mia?”

ANIMA: “Non mi prescrivi tu di essere infelice?

NATURA: “Ma in quanto che io voglio che tu sii grande, e non si può questo senza quello. Oltre che tu sei destinata a vivificare un corpo umano; e tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici[9].

E’ venuto il tempo di lasciare il casale.

Giuseppe Columbo

[1]Eterno’, in Ultime (1914-1915), tratto da L’Allegria, cont. In Vita d’un uomo, G. Ungaretti, Mondadori, Milano, 2005.

[2] Riguardo il rapporto Tempo-Anima, Plotino scrive che “anche le anime non sono propriamente nel tempo, ma vi sono soltanto le loro affezioni e le loro azioni. Infatti le anime sono eterne e il tempo vien dopo, e ciò che è nel tempo è minore del tempo: poiché il tempo deve avvolgere ciò che è nel tempo[…]”. Tratto da ‘Le anime sono eterne e il tempo viene dopo di esse”, cont. in Enneadi, IV 4, 15, pag. 637,  Plotino, Bompiani, Milano, 2002.

[3]Dolore di cose che ignoro’, in  Acque e terre (1920-1929), cont. in Tutte le poesie, S. Quasimodo, Mondadori, 1971.

[4]E in realtà tutto quello che facciamo lo facciamo solo per questo, per non soffrire dolore e per non essere turbati. E non appena questo in noi s’è prodotto, intera si placa la tempesta dell’anima […]” Tratto dalla ‘Lettera a Meceneo’, cont. in Scritti Morali, Epicuro, pag. 55, Bur, Milano, 1991.

[5] Aforisma nr. 153, pag. 484, cont. in Al di là del bene e del male (1886) , in Opere 1882/1895, Vol. II, F. W. Nietzsche, Newton Compton, Roma, 1993.

[6]  Tratto dallo sceneggiato televisivo ‘Peppino Girella’, scritto da E. De Filippo/I. Quarantotti, Il Teatro di Eduardo, RAI TV, 1963).

[7]Tempo interno’ e ‘immagine presenzializzata’ sono concetti della fenomenologia esistenziale di Sartre. Si rimanda all’opera L’imaginaire (1940) trad. it. Immagine e coscienza. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, J.P. Sartre, Einaudi, Torino, 1980.

[8]Il nulla, se non è sostenuto dall’essere, svanisce in quanto nulla e noi ricadiamo nell’essere; se del nulla può essere dato [come il ricordo esperienziale già vissuto], ciò non avviene né prima né dopo l’essere, né, in senso generale, al di fuori dell’essere, ma nel seno stesso dell’essere, nel suo nocciolo, come un verme”. Tratto da ‘Alla ricerca dell’essere’ , pagg. 57-58, cont. in L’Essere e il Nulla (1943), J.P. Sartre, Il Saggiatore, Milano, 1965.

[9]Dialogo della Natura e di un’Anima’, pag. 513, in Operette morali (1824), G. Leopardi, Newton Compton, Roma, 2005.

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