Cèsar Vallejo, il poeta che predisse e descrisse la propria morte

19 Aprile 2018

Cèsar Vallejo nasce sulle Ande, a Santiago de Chuco, fra il 1892 e il 1898 (la data è incerta).

Cresce in questo piccolo paese che all’epoca contava meno di duemila abitanti e distava da Lima, la capitale del Perù, cinque giorni di viaggio. Fa il minatore e poi l’insegnante per pagarsi gli studi. Nella grande hacienda dove lavora come insegnante privato vede la miseria degli indios, lo sfruttamento, le punizioni corporali. Tutto ciò segnerà per sempre la sua vita di errante e la sua ispirazione poetica.

Legge i mistici spagnoli, i grandi autori della letteratura castigliana: Gongora, Quevedo e forse vi si immedesima desiderando un legame di continuità che si sforza di esperire nella sua prima raccolta di poesie “Gli araldi neri”. Eppure nella sua poetica si percepisce un’afflato del tutto nuovo in quanto vi è, in queste sue prime poesie, un pessimismo infinito e una forza quasi anarchica che pervade gli esseri e le cose.

Nel 1920 si trasferisce a Parigi e non farà mai più ritorno in Perù. Vive quasi di niente, solo di quel poco che gli frutta qualche articolo scritto per i giornali sudamericani.

Nel 1928 va per la prima volta in Russia e incontra il poeta Vladimir Majakòvskij. Seguono anni di vagabondaggi in tutta Europa. Dal 1932 in poi risiede a Parigi, ma per due brevi periodi si sposta in Spagna mentre vi infuria la guerra civile. L’ultima volta è nell’estate del 1937. Ha, a quel punto, uno scarso anno di vita davanti a sè.

In quell’ultimo anno, dopo non “aver voluto” scrivere poesie per quindici anni compone, tra agosto e dicembre, i “Poemi umani” e le quindici liriche sulla guerra civile “Spagna, allontana da me questo calice”. Nel marzo del 1938 viene ricoverato in ospedale. Analisi del sangue, radiografie, esami, non rivelano niente. E’ estenuato, soffre di febbri violente e infine muore senza che i medici riescano a capire di che cosa.

Cèsar Vallejo è un poeta dall ‘esistenza molto travagliata ed errabonda. Egli incarna quella figura, rara e straordinaria, del poeta assoluto e libero, non legato a schemi, a mode, a conformismi di alcun genere. Lo si può definire come l’ultimo poeta romantico, che non ha fissa dimora nè possiede altro se non la bellezza del cielo sopra la sua testa e la ricchezza spirituale della fertile terra sotto i suoi piedi.

Il vento gli è stato compagno, la sua voce e il suo canto sono l’immagine speculare della speranza, della forza d’animo, della purezza e semplicità degli ultimi che non conoscono il Male ma lo subiscono ingiustamente durante tutta la loro vita.

Una caratteristica del tutto singolare colpisce particolarmente in Cèsar Vallejio e cioè il suo dialogare intimo, silenzioso, profondo e incredibile con la morte, o meglio, con il senso della morte. Egli lo percepì sempre intorno a sè e lo visse immaginificamente, dentro di sè, come metafora sconvolgente eppure naturale della stessa esistenza. Si spinse a tal punto, nel suo oscuro quanto personale dialogo con la morte, da predirne quasi e descriverne la propria nel poetare sofferto e universale che tracciò fin dall’inizio le linee principali del suo destino. Riporto la poesia in cui prevede e descrive la propria morte, tratta dalla raccolta “Poemi umani.

PIETRA NERA SU PIETRA BIANCA

Morirò a Parigi nello scroscìo

di un giorno che ho già vivo nel ricordo.

Morirò a Parigi – non mi inganno –

come oggi forse un giovedì d’autunno.

Di giovedì sarà. Oggi che proso

questi versi e gli òmeri ho malmesso,

è giovedì e mai come oggi giunsi,

con tanta strada, a rivedermi solo.

Cèsar Vallejo è morto, lo picchiavano

tutti senza che lui facesse nulla;

lo legnavano sodo e duramente

lo cinghiavano: sono testimoni

i giorni giovedì, le ossa degli òmeri,

la vita sola, la pioggia, le strade…

Francesca Rita Rombolà

 

 

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