Una scrittura … forse pur essa metafora nella metafora di un oggi che ormai va oltre la stessa post – modernità in tutti i sensi e in ogni senso insieme. “Il burò delle persone scomparse” di Adele Costanzo

17 Ottobre 2025

Proprio fresco di stampa, addirittura freschissimo (forse sono una delle prime lettrici affezionate ad averlo letto), ecco il terzo romanzo di Adele Costanzo sul Grand Tour dal titolo “Il burò delle persone scomparse” (Readaction Editrice Roma, settembre 2025). Adele aveva promesso di scriverlo. E lo ha fatto. Il volume è ben curato nei dettagli tecnici. Presenta una bellissima copertina con sfumature di azzurro che si alternano a colori pastello, catturando l’occhio fin da subito; pagine ampie e ben “squadrate” e dei caratteri di scrittura legibilissimi, anche a persone anziane e con problemi di vista.

Ritroviamo gli stessi personaggi (Antonia, Henri, Bachume, Florentin e adesso il figlio Didier) degli altri due romanzi, ma trenta anni dopo! E’ il 1746. Primavera. Il gendarme Florentin, insieme al figlio Didier e alla moglie di lui, ha messo su un burò delle persone scomparse, perciò Antonia ed Henri si rivolgono a loro l’una per cercare la sorella Annetta, scomparsa molti anni prima, l’altro il figlio naturale, Armand, che ora dovrebbe essere un giovane ben piantato. Le loro vicende in questo volume si svolgono tra la Francia del Nord (Normandia e Bretagna) e il Piemonte (con una breve sosta a Genova e una sortita in Spagna). Molto è cambiato. L’intera atmosfera è cambiata. E non tanto perché sono passati decenni e forse non c’è più lo spirito ribelle della gioventù (eppure i personaggi hanno ancora nel cuore e nella mente quell’ansia di avventurieri e quella speranza del domani che sempre li ha caratterizzati) quanto piuttosto per una certa latente consapevolezza dell’inutilità e del relativismo di un affannarsi del mondo e della vita in generale. E ciò lo si nota, via via che le pagine scorrono, in molti punti del romanzo come, ad esempio, in questo brano: “( … ) Dormono insieme (Antonia ed Henri), come ancora succede, perché qualcosa della vecchia fiamma è rimasto e si ravviva di tanto in tanto, ma tu non esultare, quello che accade tra loro non è precisamente ciò che ti aspetti e che noi volevamo. Dirai che bisogna accontentarsi, che “qualcosa” e “di tanto in tanto” è sempre meglio di niente. Non hai torto, è così che va il mondo, ma pensa come sarebbe bello se con quel che li lega ci avessero costruito una casa da ritornarcisi quando il gelo li taglia in due, o da starsene distesi all’ombra delle persiane nei pomeriggi della calura, quando gli insetti friggono sulle pietre delle strade. “La nostra casa è il viaggio”, si ripetevano ai tempi gloriosi del Grand Tour. Così ricorda Antonia, e chi sa come sarebbero andate le cose se non avessero mai smesso di viaggiare ( … )”. (“Il burò delle persone scomparse”, pag. 37 – 38). Bachume – il Bachume dalle molte identità e dalle origini sempre taciute – ha assunto ora il nome di Bernabeysson, ed è uno stimato professore di scienze naturali all’università di Caen … almeno fino a quando la palese antipatia fra lui e il proprio assistente De La Chosette non prenderà una piega drastica e la sua “indole di avventuriero” lo farà mollare tutto, come ha sempre fatto del resto, per unirsi di nuovo ad Antonia e ad Henri.

Una cosa che mi ha colpito molto in questo terzo romanzo di Adele Costanzo sul ciclo del Grand Tour è la scrittura. Sì la scrittura. Una scrittura che sento, che percepisco fine e superba, tagliente e sicura. Una scrittura che “fila liscia come l’olio su una superficie piana” Una scrittura, un modo di scrivere, un modo di usare, di muovere la penna di una disinvoltura e una maestria ammirevoli che, per certi versi, ricorda un po’ alcuni romanzi di Marguerite Duras o anche di Jean Cocteau (siamo nel campo della letteratura francese, ah la Francia); e non poteva essere altrimenti per l’ultimo romanzo del Grand Tour di Adele Costanzo, perché non ce ne saranno altri … non possono essercene altri. Una scrittura – dunque – che non era presente nei due volumi precedenti. Una scrittura che descrive diffusamente e si nutre di tutto il disinganno e della società e del tempo che passa e del vivere quotidiano con i suoi affanni, le sue sofferenze, le sue brutalità, le sue attese o disattese, la sua disperazione e le sue speranze entrambe proprie di un’epoca, o meglio, di un imminente cambiamento d’epoca … forse pur essa metafora nella metafora di un oggi che ormai va oltre la stessa post – modernità in tutti i sensi e in ogni senso insieme.

Il burò delle persone scomparse messo su dai Florentin ritroverà alla fine Armand e Annetta? Sì. Ma non come il lettore immagina o può immaginare (si rimane davvero sorpresi di questo). Il capitolo finale, “Notre Dame de Chartres”, non fa che velatamente (e metaforicamente ancora) additare ad uno spazio e ad un tempo caotici in cui “la memoria di sé, sbriciolata, svolazza come polvere senza padrone e senza ritorno o, più probabilmente, come fumo s’è dissolta nell’aria” e un Florentin padre – umanità intera può ritrovare se stesso/a e il proprio passato (e quindi poter comprendere il proprio presente e il proprio futuro) soltanto volgendosi all’Infinito, a Dio, o a ciò che pur esiste oltre il cielo visibile e supera – sempre e comunque – di gran lunga l’uomo.

Francesca Rita Rombolà

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