Katia Debora Melis legge Alberi spogli di Francesca Rita Rombolà

24 Marzo 2015

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Non inganni il lettore l’apparente esilità del libro, ché di tutt’altra marca sono il tenore e il contenuto, degni d’attenzione e pacata rilettura, oltre l’approccio inizialmente dettato dal ritmo incalzante delle parole.

Da subito nel lettore si creano immagini colme d’attesa, dietro il chiaro richiamo del titolo alla stagione più dura della natura e, metaforicamente, anche a quella della vita umana. L’albero privo di foglie appare fragile, scheletrito, privo di vigore e sofferente, come l’essere umano privo d’amore.

Ma la ciclicità delle stagioni tiene in serbo rinascita e rinnovamento, nuove fasi che al cupo grigiore e ai colori sbiaditi vedranno sostituirsi cromatismi carichi di solarità e toni screziati.

La vena lirica della Rombolà che qui si dispiega ondeggia armonicamente e delicatamente, in modo del tutto naturale, tra questi due estremi, in un canto che si distende, vibrante, continuo, facendo di Alberi spogli un vero e proprio poemetto in cui le voci altre e quella dell’Io lirico si scambiano e s’intersecano, quasi si fondono, nella pienezza di un senso panico della natura e della vita.

Si sprofonda in un mondo quasi magico, di lontane antiche assonanze che, anziché allontanare, rendono ancora più acuto e vibrante il canto d’amore, all’amore, più vivo, sempre attuale, perché sempre in atto, in una dimensione senza tempo.

L’anelito all’idillico primordiale, al sogno, confligge col senso di mancanza e inconciliabilità degli estremi nel reale (il tuo sogno è migliore di qualunque vita). L’ombra stessa della morte aleggia nell’impossibile nostos dei cari affetti perduti. Il male che ci lacera è infinitamente senza speranza. Il bene che ci avvolge è eternamente in bilico sul precipizio dei cieli.

La natura in autunno, nel suo assopirsi e ridisegnarsi in nuovi paesaggi è, comunque, sempre sollievo empatico all’animo poetico, al sole lontano e alle foglie morte di un insano colore seguiranno dune plasmate dal calore e dal vento. Così, mentre si vive ancora nel gelo più intenso (è ancora febbraio il più breve fra i mesi dell’anno, il più freddo, il più acuto) ecco che, proprio allora, è più vicina la primavera.

Ed è nel momento degli alberi spogli che, spoglio anch’esso, l’Io lirico cerca disperatamente la sua lira perduta, mentre canta la natura nei suoi innumerevoli suoni, e si dispera di non saper più amare, di non trovare più il suo cuore.

Immagini d’ascendenza classica di natura e dei fanno capolino tra le parole della Rombolà che le fa rivivere con affetto sincero, profondo e consapevole, riempiendole di senso che poco ha di imitativo: tutto è così vero, la parola brucia, fugge, danza, si scompone e ricrea, in un linguaggio dal tono altamente lirico, eppur semplice, assolutamente consono alla sacra immagine di amore e poesia qui presentata. Il cuore umano nel suo mistero più profondo non ha né tempo né spazio poiché non vive mai in essi. Resta così anelito di vita senza fine.

Katia Debora Melis

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