Un riflettere brevissimo sul libro LA PAROLA E L’ABBANDONO di Mauro Germani

30 Dicembre 2019

Franz Kafka diceva: << A cosa può servire un libro se non è un’ascia affilata che spezza il mare ghiacciato dentro di noi? >>. Oggi vi sono libri di ogni genere, di ogni colore, di ogni formato. In questo primo scorcio di ventunesimo secolo si scrivono e si pubblicano più libri di quanti se ne sono scritti e pubblicati nei secoli immediatamente successivi alla scoperta della stampa da parte di Gutenberg. Ma quanti sono “un’ascia affilata che spezza il mare ghiacciato dentro di noi?”. Forse pochi. Sì, perché un libro, prima di ogni cosa, deve essere “vivo” e “saper parlare”.

Ho appena finito di leggere LA PAROLA E L’ABBANDONO di Mauro Germani. Un libro né voluminoso né vistoso né esteriormente accattivante. Sobrio e gravido di essenza quanto basta, con un equilibrio e una sottesa armonia particolari. Ma è un libro “vivo”. Un libro che “parla”. Cosa contiene LA PAROLA E L’ABBANDONO, volumetto di settantotto pagine appena? Di tutto. Frasi compiute e pensieri completi. Appunti di un attimo o di un giorno diversi e speciali. Istanti fugaci e impossibili catturati e trattenuti qui e ora dalla scrittura. Speranze passeggere, nostalgie lontane e vicine. Memorie come pallide foglie autunnali. Un sognare animato e dolce. Un sentire e un percepire forse consegnato talvolta alla lucida sequenza dell’aforisma. Ma su tutto e soprattutto un vibrare poetico sotteso dal principio alla fine. Dolore, amarezza, solitudine, perfino sconfitta dell’essere nel mondo. Consapevolezza della morte e rimando al vuoto che permea l’esistenza… ma ogni cosa trasfigurata dal tocco salvifico della poesia. Dove c’è poesia non vi è in fondo la morte reale e prevalenza del male in quanto la Poesia, che si fa Canto, è in sé sintesi di luce e ombra. Ombra nella luce. Luce nell’ombra.

“Io celebro. Oltre la vita e la morte. La sofferenza e il nulla. L’orrore e la gioia. Io celebro”. Niente può rendere meglio, più comprensibile la complessità del concetto di queste parole del poeta Rainer Maria Rilke. Così, dunque, allora la parola si anima, diviene ascolto, si concretizza in scrittura e va, allo stesso tempo, oltre la scrittura incamminandosi verso il superamento dell’abbandono medesimo. Il mondo non è stato mai accogliente e comprensivo verso i poeti veri, mai indulgente e pronto ad un ascolto umile e sincero della parola poetica, perciò al poeta e alla poesia non è mai rimasto altro che il duro lottare per la sopravvivenza teso fra il diritto ad esistere e la valenza nouminosa del dono – messaggio recato agli uomini dal sovrastare dell’Origine e del Senso Ultimo.

Non posso concludere questo mio riflettere brevissimo e di getto su LA PAROLA E L’ABBANDONO di Mauro Germani che con un passo tratto dal libro, nella prima parte “La solitudine della parola” a pagina ventinove, e suscitare forse nel lettore attento, e che ama la Poesia e il poetare, il desiderio di una riflessione acuta e profonda.

“Che cos’è l’appello a cui la parola poetica risponde? Forse nella sua notte, il linguaggio non solo parla, ma sogna e fa sognare. E il disvelamento proprio della poesia diventa manifestazione errante del desiderio dell’Altro, cioè desiderio del linguaggio stesso nella sua essenza. Dire il taciuto è anche desiderarlo. Il linguaggio originario è allora quel canto – sogno senza parole e senza immagini da cui deriva ogni parola e ogni immagine. L’appello viene dall’ombra. La risposta è l’ineluttabile rovina della luce, quella parola spettrale che ci resta e sentiamo come inaudita”.

Francesca Rita Rombolà

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