Il Mito: quella straordinaria invenzione – creazione dei poeti della Grecia arcaica. Una riflessione illuminante e inusuale intorno a “ERANO LE OMBRE DEGLI EROI” di Donatella Bisutti

9 Gennaio 2024

Nel 1990 Francesca Rita Rombolà pubblica la sua prima raccolta di poesie TIRINTO (Firenze Libri Editore), e il suo primo libro in assoluto. Come il titolo ben dice, questa silloge poetica prende lo spunto primario dall’antica città – fortezza della Grecia ma i suoi contenuti sono attuali e spaziano per il mondo che vive, che lotta, che muta o è in fase di mutamenti profondi ed epocali: è il Mito che ritorna in poesia, quella straordinaria invenzione – creazione dei poeti della Grecia arcaica che ha consentito loro, in primis, di plasmare, con la plasticità del logos misto al linguaggio, un universo fatto di dei e di eroi, di caos e di armonia, di follia e di bellezza, di incanto e di dolore in cui il Mito, per mezzo del canto, conduce dal nulla all’esistere e dona l’immortalità vanificando lo spazio e il tempo. Scrive, a proposito del Mito, Walter F. Otto, fra i massimi interpreti – studiosi della religione greca classica: ” Il vero Mito è sempre un mito di dei. Vi rientra anche il mito concernente gli eroi. Questo infatti non soltanto presuppone il mito degli dei, ma gli si rivela affine anche nel culto al quale anch’esso è indebitamente legato ( … ). Il linguaggio, nei suoi elementi fondamentali, è assolutamente mitico e, dunque, linguaggio e mito sono una cosa sola. ( … ) Il linguaggio è l’essenza ed il cuore del mondo, perciò il suo potere è di innalzare e di svincolare da ogni peso terreno nella libertà. ( … ) Mito è parola e discorso. Mito è originariamente la parola vera, la parola di ciò che è. Dunque, Mito e Poesia sono essenza e fondamento dell’umano” (Walter F. Otto “Il Mito” – Il Melangolo Edizioni – pag. 94 – 105 – 113).

Questa breve intro per additare a un libro pubblicato da poco da Donatella Bisutti dal titolo “ERANO LE OMBRE DEGLI EROI” (Passigli Editori, maggio 2023). Più che di una silloge poetica si tratta di una sorta di poema – tragedia in quanto del poema ha la compattezza e la coerenza della narrazione dal primo verso fino all’ultimo e della tragedia greco – antica, nei suoi rappresentanti maggiori e forse più completi e profondi, cioè Eschilo e Sofocle, lo schema, la scrittura, lo stile, la sublimità. La città che ella sceglie per la sua narrazione è la città di Tebe ( in Beozia – Grecia – situata a nord del monte Citerone), talmente importante e talmente emblematica sia nella Grecia del periodo arcaico sia in quella del periodo classico da essere assurta quasi a simbolo della storia come a quello della letteratura per le generazioni che hanno solcato i secoli. Allora ecco che Donatella Bisutti da inizio al suo canto deciso e insieme dolente e riporta, ancora una volta, in essere il Mito facendo sì che Tebe diventi la città dalla quale e per mezzo della quale si vive e vive il mondo, la realtà di questo primo scorcio del ventunesimo secolo. Mirabile ed efficace quanto sapientemente esperito l’intreccio di linguaggio immaginale fra le vicende del passato leggendario e quelle del vissuto odierno, tanto da far approcciare il lettore all’ascolto e alla lettura in modo lieve e senza accorgersi nemmeno dello sfasamento di prospettiva che la distorsione storico – temporale comunque produce. Attraverso la città di Tebe e i suoi personaggi, eroi, dei, semidei che l’hanno fondata, abitata, resa magnificente, distrutta, la poetessa canta il mondo post – moderno con i suoi conflitti e i suoi molti problemi, le miserie e le grandezze che lo scuotono, le paure e i turbamenti che lo agitano, la sofferenza, sottesa e palese, che lo pervade: occhio vigile e disincantato verso frontiere aperte su un futuro immediato (che poi futuro forse non è nemmeno più tanto la società corre veloce e mortifera) nei cui cambiamenti imminenti echeggiano velati i nomi di strani e ancora surreali concetti quali Metaverso, Transumanesimo, conquista dei pianeti oltre la terra; ma vi è tristezza e pena ahimè perché vi si constata che “Non ci sono più eroi/Le ombre degli eroi/formano un groviglio sullo sfondo inconsistente/un groviglio di lacrime e sudore nero/che cola”. Corredato, nella sua parte finale, da un eccellente apparato di note esplicative, “ERANO LE OMBRE DEGLI EROI” presenta anche tutto il contrasto e lo stridore attuali di una società violenta e non priva di mali sì quale quella della Grecia arcaica e tuttavia pur sempre incarnante dei valori elevati portatori di vita e di miglioramento interiore e di una società tecnologicamente avanzatissima che ha bandito la sofferenza, il dolore, ogni sensibilità e passione, Dio e ha eliminato molti mali endemici tormentatori degli uomini a discapito, però, di un senso dell’umano che avrebbe dovuto (che è) inalienabile.

Mi par di ravvisare in “ERANO LE OMBRE DEGLI EROI” di Donatella Bisutti quel sottile e oscuro, diciamo così (alla greca), phatos il quale fa sì che la poesia diventi visione. Si trasfiguri in visione. Visione sì. Visione cosmica. La visione cosmica che aleggia sempre sul poema che ha la pretesa, fondante e fondata, di immortalare la propria epoca storica di appartenenza … “E cosa ne faremo dei poeti?” Si chiede e chiede la poetessa verso la fine del poema, domanda scontata quanto urgente nel sollecitare risposta, nella quale si ode vago il suono di una domanda simile formulata, a suo tempo, quasi come grido inascoltato nel vuoto, dal pensatore più incompreso, più controverso, più complesso del Novecento ossia Martin Heidegger: “A che i poeti oggi?”. Amara sembra essere la risposta di Donatella Bisutti: “Come un’erba nefasta li estirperemo/perché predicano la libertà e l’insurrezione. – Non tutti. – E’ vero. Lasceremo quelli soli/che si baloccano con le parole”. Segno – dunque – che i poeti (i veri, gli autentici) e la Poesia non saranno più (lo sono di già?) possibili? Non posso crederlo. No. Non posso pensarlo. No. Poiché anche se uno soltanto, perseguitato e umiliato, lasciato solo e peregrinante di luogo in luogo, dovesse sopravvivere, lo Stato dei forti, la civiltà della tecnica, in una parola, il Potere dominante (di qualunque natura e veste esso sia) sarebbe in pericolo in quanto mai potrebbe riuscire a far tacere ( come è mai riuscito a farlo in ogni età della storia) la voce del vero poeta e della vera poesia, che incita alla libertà e alla rivolta.

Ritornando, ancora una volta, a Martin Heidegger, con sgomento e sconforto, constatiamo che siamo immersi nella notte del mondo e che i poeti e la Poesia sono avvolti dall’oblio che li sottrae all’ascolto e alla vista ma che, allo stesso tempo, li custodisce per un’era propizia, anche lontanissima, nella quale ri – torneranno a creare/inventare il Mito e a cantare gli dei e gli eroi per la gioia e il diletto di una società armoniosa e civile che li comprende appieno e li ama … perché, come sosteneva Eraclito, l’uomo, l’essere umano, è quella creatura sublime, folle, terribile, dolce, imprevedibile insieme che è in grado, riesce a sperare l’insperabile.

Francesca Rita Rombolà

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