L’ombra che esorta alla vita – PUBLIO VIRGILIO MARONE

15 Ottobre 2012

(…) Era ne l’ora

che nel primo riposo hanno i mortali

quel ch’è dal cielo e i loro affanni infuso

opportuno e dolcissimo ristoro:

quand’ecco in sogno (quasi avanti gli occhi

mi fosse veramente) Ettor mi apparve

dolente, lagrimoso, e quale il vidi

già strascinato, sanguinoso e lordo

il corpo tutto, e i piè forato e gonfio.

Lasso me! quale e quanto era mutato

da quell’Ettor che ritornò vestito

de le spoglie d’Achille, e rilucente

del foco, ond’arse il gran navile argolico!

Squallida avea la barba, orrido il crine

e rappreso il sangue; il petto lacero

di quante unqua ferite al patrio muro

ebbe d’intorno. E mi parea che il primo

foss’io che lagrimando gli dicessi:

<< O splendor di Dardania, o dè Troiani

securissima speme, e quale indugio

t’ha fin qui trattenuto? Ond’or ne vieni

tanto da noi bramato? Ahi, dopo quanta

strage dei tuoi, dopo quanti travagli

de la nostra città già stanchi e domi

ti riveggiamo! e qual fiero accidente

fa sì deforme il tuo volto sereno?

e che piaghe son queste? >> Egli a ciò nulla

rispose, come a vani miei quesiti:

ma dal profondo petto alti sospiri

traendo: << Oh! fuggi, Enea, fuggi, mi disse,

togliti a queste fiamme. Ecco che dentro

sono i nostri nemici. Ecco già ch’Ilio

arde tutto e ruina. Infino ad ora

e per Priamo e per Troia assai s’è fatto.

Se difendere ormai più si potesse,

fora per questa man difesa ancora:

ma dovendo cader, le sue reliquie

sacre e gli santi suoi numi Penati

a te solo accomanda; e tu li prendi

per compagni a’ tuoi fati; e, come è d’uopo,

cerca loro altre terre, ergi altre mura;

chè dopo lungo e travaglioso esilio

l’ergerai più di Troia altere e grandi >>.

Detto ciò, da le chiuse arche reposte

trasse, e mi consegnò le sacre bende

e l’effigie di Vesta e il foco eterno.(…)

Publio Virgilio Marone

Questo canto, commovente e famosissimo, è tratto dal libro II di quel grande poema sfidante i secoli e i millenni che è l’ENEIDE ed è conosciuto come l’episodio de L’OMBRA DI ETTORE. E’ riportato qui nella prima traduzione dal latino fatta dal poeta Annibal Caro nel sedicesimo secolo, ossia in pieno Rinascimento. Ci piace ricordare sempre che l’autore de l’ ENEIDE è stato il poeta latino Publio Virgilio Marone, il quale nacque ad Andes, nelle vicinanze di Mantova, proprio il 15 ottobre del 70 A. C. e di cui oggi si commemorano i 1942 anni della nascita! Giorno particolare dunque il 15 ottobre, anche perché è il giorno della nascita di una persona a me cara (al quale dedico questo articolo) grande estimatore dell’antico mondo romano, soprattutto del periodo dell’imperatore Ottaviano Augusto nel quale visse e compose le sue opere il poeta-vate Virgilio. L’episodio de L’OMBRA DI ETTORE è, a mio avviso, forse il canto più alto, più toccante, più coinvolgente di tutto il poema insieme a quello de LA MORTE DI DIDONE nel libro IV e a pochi altri che non è il caso di menzionare dilungandosi troppo. Esso piacque e divenne famoso quasi fin da subito. Perché? E’ un canto triste, malinconico, e l’episodio specifico è di una tragicità che fa tremare le ossa, sembra sconvolgere e a volte produrre un senso di angoscia infinito. Eppure in questo canto vi è tutto il phatos della concezione latina della vita e della morte, forse dell’intero pensare e agire di quel mondo mediterraneo che è stato crocevia e crogiolo di popoli e di civiltà avanzati. Enea si trova alla corte di Didone regina di Cartagine, naufrago ed errante, ospite forse temporaneo forse duraturo. Per sdebitarsi dell’ospitalità concessa dalla regina, egli racconta la presa di Troia da parte dei greci; la fine dell’antica e nobile stirpe di Priamo; come riuscì a fuggire dalla città in fiamme e il suo errare alla ricerca di una nuova patria in terre lontane. Ettore era stato l’eroe per eccellenza della città di Troia, colui che era ritornato trionfante con le armi di Achille sottratte all’amico di lui Patroclo ucciso in duello, ma che era stato ucciso, a sua volta, da un Achille furibondo, straziato nel corpo, appeso per i piedi alla biga del vincitore e trascinato, quale macabro spettacolo, sotto le mura della città. E’ precisamente in questa veste che appare in sogno ad Enea: lacero, sanguinante, desolato. Non nella gloria ma nella sconfitta. Per esortarlo a lasciare la città ormai perduta e di portare con sè quello che essa ha di più sacro: i Penati, gli dei del focolare; le sacre bende che cingevano l’effigie della dea Vesta e il fuoco a lei sacro. Quasi una trasmissione di continuità di un mondo e di una civiltà ormai perduti, ma che il Destino vuole rinascano, un giorno lontano e in terre lontane, nella potenza e nella grandezza di Roma dominatrice del mondo. Questo è forse l’intento più nascosto e più sentito di Virgilio: celebrare, per mezzo del Canto, la potenza raggiunta da Roma; dare alla civiltà romana che ha conquistato il mondo allora conosciuto un giusto riconoscimento e l’immortalità attraverso la Poesia. Eppure sembra anche voler dire che tanta conquista e tanta fama sono state possibili con le battaglie più cruente e le guerre più logoranti; spargimenti di sangue; sacrifici immani e la disciplina guerriera più dura. Ettore è solo un’ombra, in sogno; un Ettore vinto e pietoso, ed Enea, altro eroe troiano forse secondo solo allo stesso Ettore, in quel momento, nel suo sonno agitato non è da meno. Il pianto accomuna i due eroi troiani ormai perduti. Il dolore sembra animarli, renderli vivi e ancora capaci di lottare affinché Troia non scompaia per sempre dalla memoria degli uomini; la sofferenza dell’anima e del cuore infonde loro una speranza quasi impossibile e assurda in mezzo alla morte e alla distruzione. Allora Ettore non è più un’ombra che viene dall’Oltretomba ma si trasforma in essere ancora vivo, forse mai morto. Nell’immediata percezione di Enea,  egli è reale, in carne ed ossa, una persona che ha sofferto e umanamente soffre per le ferite e per le umiliazioni subite, ma che è pur sempre capace ancora di salvare il salvabile, di essere l’eroe di sempre al quale Troia si affida ancora come ha sempre fatto per la propria salvezza o la propria sopravvivenza. L’episodio dell’ apparizione di Ettore ad Enea è stato definito dallo scrittore francese Chateaubriand “un compendio dell’arte di Virgilio” perchè egli ha saputo conciliare “l’ora in cui gli uomini nel primo sonno assaporano la quiete così necessaria alle loro membra stanche” con quella fase del sonno in cui, lentamente, i sogni affiorano e prendono forma, restituendo a noi tutti l’immagine amata di persone care ormai scomparse i quali vengono a noi per esortarci, consigliarci e farci capire che non hanno smesso di seguirci dalla dimensione ultraterrena e misteriosa dove la morte li ha portati. Napoleone Bonaparte vedeva, nell’ ombra di Ettore che appare in sogno ad Enea in questo canto dell’Eneide, il destino dei popoli; la fugacità delle conquiste; l’effimero dispiegarsi della gloria e della potenza che passando lasciano posto ad una strana vicinanza, nuda e ultima, fra uomini soltanto affranti, colpiti e rinnovati dall’esperienza forte e intensa del dolore.

 

Nel 2000, il regista inglese Ridley Scott ha girato il film IL GLADIATORE, con l’attore neozelandese Russell Crowe come protagonista maschile della pellicola. Forse uno dei pochi film degli ultimi decenni che descrive mirabilmente il mondo romano fatto di conquiste sanguinose al prezzo di sacrifici enormi; di una civiltà cruenta che poggia sulla schiavitù e la sopraffazione dell’uomo; sui combattimenti fra gladiatori quali spettacoli gratuiti nelle arene sconosciute come in quelle più importanti, e nonostante ciò portatore, a chiunque sappia coglierla, di quella pietas latina e tutta mediterranea “trasmessa”, quale eredità preziosa, in sogno da Ettore ad Enea e “portata” da quest’ultimo veramente ai confini dello spazio e del tempo.

Francesca  Rita  Rombolà

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