I versi di una poesia continua e infinita

26 Luglio 2021

L’Australia è un continente lontano e forse ancora misterioso e sconosciuto. Le tribù di aborigeni, i nativi di quella terra, sono ormai ridotti in sparuti gruppi concentrati per lo più nelle zone molto interne del continente. Anch’essi, da tempo, conoscono il progresso e gli stili di vita prettamente occidentali. Ne sono anch’essi assuefatti, e sono immersi nel senso dell’effimero e del nulla banale che, di conseguenza, quelli producono e diffondono a livello planetario. Pur tuttavia e nonostante ciò queste poche tribù aborigene ancora “genuine” e naturali conservano, quasi intatte, le loro tradizioni ataviche. Colpisce, soprattutto, la loro concezione nei riguardi del canto, della poesia in rapporto all’esistente tutto. Curioso e un tantino incredibile, per loro ogni cosa è canto. Ogni cosa è poesia. Dal vento alle stelle, dalla luna al sole, dalla pioggia al fuoco, dal caldo al freddo, dalla caccia alla danza rituale, dal pasto in comune al filo d’erba, dall’albero alla roccia, dal nascere al morire, dal crescere e diventare adulti al matrimonio e al generare prole, dall’alternarsi delle stagioni al salto del canguro e all’arrampicarsi del koala sugli alti rami dell’eucalipto.

L’aborigeno australiano parla alla natura intera e ad ogni cosa che esiste sulla terra in versi, come se stesse componendo o recitando una poesia ad alta voce. Ed è sicuro di essere ascoltato, anzi viene ascoltato proprio perché le sue parole sono i versi di una poesia continua e infinita alla quale gli elementi e le cose prestano ascolto e rispondono alla loro maniera, con il linguaggio donato loro dalla natura. Così per mezzo della poesia che, in questo caso, è canto purissimo l’uomo è in stretta simbiosi con ogni cosa che lo circonda, comunica con il Tutto in una sorta di linguaggio universale al di fuori del tempo e degli schemi costituiti che lo caratterizzano nelle civiltà maggiormente evolute dal punto di vista della tecnica.

Un antichissimo mito aborigeno racconta che il primo cacciatore si addormentò di notte sulla cima della sacra roccia Uluru (L’Ayers Rock, la famosa formazione rocciosa al centro del continente), quasi nudo e con il suo boomerang accanto. Non morì di freddo per la dispersione del calore corporeo durante l’escursione termica notturna, ma ascoltò il canto del Regno delle Ombre Azzurre come in un sogno vivo fatto di scie siderali, che portano verso luoghi lontanissimi oltre la terra e il cielo. Quando, prima dell’alba, si svegliò il suo linguaggio era diventato poesia e tutto quello che lo circondava, dalla roccia alla sabbia ai cespugli all’orizzonte e agli animali, era la Poesia dell’Esistenza. Così egli intonò il Canto delle Cose. E le cose, da quel momento in poi, parlarono a lui e ad ogni uomo dopo di lui.

Il Canto delle Cose

Al sole e alla luna

ai quali parlo in silenzio,

al vento e al fuoco

che ascoltano

il mio ritmico sussurro,

alla roccia e all’albero

che sentono il mio parlare,

alla pioggia e alle stelle

la cui voce è lieve e lontana,

ai sentieri tracciati o nascosti

che portano ogni voce profonda,

alla danza e alla morte

sussurro di voce ancestrale,

al fiume che scorre

ed è voce infinita,

agli accenti notturni

che donano all’aria i versi poetici

lungo la via del tempo,

al vagito del nascituro

voce di vita

che diventa e sempre diventa

il canto più alto del mio poetare.

Francesca Rita Rombolà

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