Lettura di alcune liriche brevi da Cuore di mussola di Katia Debora Melis

11 Luglio 2021

Lettura di alcune liriche brevi da Cuore di mussola di Katia Debora Melis

di Vincenzo Moretti

 

  1. I. Alle soglie del testo.

Nel colophon, il retro del frontespizio dell’ultimo libro di Katia Debora Melis, la silloge poetica Cuore di mussola, oltre ai necessari dati di pubblicazione (ISBN, Copyright, recapiti dell’Editore Mario Vallone), sta scritto:

 Immagine di copertina e quarta:

“L’umana condizione tra soffice, stropicciato e pungente” raffiguranti, rispettivamente, “Cuore a metà” e “Terreno imperfetto

Autore: Battistina Meloni.

In copertina, dunque, c’è un Cuore a metà: di mussola, un tessuto estremamente leggero, morbido e trasparente, ma stropicciata e pungente perché la mussola racchiude una mezza corona di aghifoglie spinose. Cuore a metà: l’immagine di copertina «riprende dal titolo l’idea del cuore, però dimidiato, sia nella forma, sia nell’ambientazione tra elementi opposti. Da una parte, terreno e rovi che possono pure sembrare nido oltre che corona di spine pronte a far sanguinare il cuore; dall’altra parte, la mussola morbida e avvolgente, un tessuto leggero, usato anche per le camiciole per il corredino dei neonati, che rimanda a un’idea di protezione, all’infanzia, e anche a quella purezza d’animo e di ideali, che certe ideologie, prepotenze, violenze, opprimono e vogliono cancellare».[1]

Alla pagina terza, in esergo, un monito dell’autrice stessa:

Attento a ciò che accetti come verità.

Monito antico, e sempre nuovo. Più che mai attuale in tempi di fake news, di “bufale” originate da paranoie complottiste o da astuta dezinformatzija generatrice di odio. La non-verità che punge, fa male, irrita, sconvolge, fa imprecare. E per contro, il dovere delle contromisure, della prevenzione, della terapia d’urto o di mantenimento: dis-velare, rivelare l’effettivo stato delle cose, mediante un linguaggio “altro”, che punge come l’ago di un’iniezione, che ci immunizzi da parole d’ordine, frasi fatte, luoghi comuni. Un linguaggio oracolare, criptico, arduo a decifrarsi ma che, come il pagano oracolo pitico, richiede l’interpretazione, la pretende, perché il messaggio poetico non è autoreferenziale ma performativo, è un atto linguistico che pretende un risultato nel mondo delle cose.

  1. Parte prima.

La weltanschauung che sottende il discorso di Katia Debora Melis è ben espressa nella poesia Dioscuri:

Guardatevi nel bene

da ogni male

perché non Vi conviva l’ombra

giacché Dioscuri li fece

il Bene e il Male.

È il medesimo monito dell’esergo: Attento a ciò che accetti come verità. Ogni cosa ha la propria oscura ombra malefica: il Bene che è luce e spirito, il Male che è tenebra e materia bruta sono due entità metafisiche in perpetua lotta all’interno della storia umana. Ombra e Luce, Verità e Menzogna sono Dioscuri: Gemini, mitologici gemelli.

Cosa ci resta? Cosa abbiamo creato?

Il sesto continente

è una caramella.

Qualcuno l’ha mangiata

e ha sputato la plastica.

In mare.

Che c’è di più dolce del gustare una caramella? Che c’è di più vicino alla biblica Genesi, della nascita di un nuovo continente (per di più, non opera di Dio o chi per esso, ma dell’uomo medesimo)? Parole e immagini soffici come mussola. Mussola-poesia stropicciata e pungente: sputare plastica. L’umanità come un gigantesco bambino ingordo che ingerisce caramelle senza scartarle e ne sputa in mare l’involucro di plastica. “Sesto continente”, nel 1954, fu il primo film a colori nella storia della cinematografia subacquea italiana. Diretto da Folco Quilici nel corso della spedizione nel Mar Rosso organizzata da Bruno Vailati, documentò le circa diecimila ore di immersione durante le quali furono raccolti e poi catalogati pesci, invertebrati e coralli. Trionfi della natura, trionfi degli umani del secolo scorso. Oggi invece

il sesto continente (chiamato anche Pacific Trash Vortex) è una vera e drammatica realtà. Un oceano trasformato nella discarica più grande del mondo. Ha un’estensione inimmaginabile, delle dimensioni del Canada: oltre 2500 Km di diametro, una profondità media di 30 metri e concentra più di 100.000 tonnellate di rifiuti di plastica, suddiviso in due “isole” nei pressi del Giappone e a ovest delle Hawaii. (URL: https://www.nakpack.it/blog/ambiente/il-sesto-continente-il-pacific-trash-vortex/).

Pochi versi, dunque, ma densi di responsabilità semantica e morale.

Hic et nunc

La risata di questo mondo

è piena di vermi.

Non mi piace la coda

dei lupi mozzata.

Degli eccentrici gabbiani

abbiamo già detto.

Passiamo al passo muto

delle serpi.

L’hic et nunc, il qui e ora, il modo in cui concretamente l’Essere si dà nell’Esser-ci, nella temporalità della Storia e dell’esistenza individuale, cioè in questo mondo, si manifesta, fenomenologicamente, come risata piena di vermi. La successiva dichiarazione dell’Io poetante (Non mi piace la coda /dei lupi mozzata) si può forse comprendere in riferimento a un verso della canzone Coda di lupo di Fabrizio De André, (cambiai il mio nome in “Coda di lupo): coda mozzata dal fallimento, disgustoso per l’Io poetante, delle rivolte del ’68 e del ’76 e dal riflusso della speranza nella “fantasia al potere”. Dall’io si passa al noi: …abbiamo detto. /Passiamo… Plurali maiestatis (la maestà del vate) o modestiae (la modestia di una minoranza impotente) che sottendono intenzioni di etica e di poetica. Preterire il (già concluso? o inutile, frusto, noioso?) discorso sui (o gli insegnamenti dei?) gabbiani che risultano eccentrici, che si collocano o sono collocati fuori o lontano dal centro (del discorso? del generale modo di sentire e di campare?). Tacere sui gabbiani, che troppo si fanno notare a causa del loro stridente strepitio… e passare oltre, soffermarsi sul passo (traccia del passaggio? modo di procedere?) delle serpi che è muto, silenzioso. Il serpente, animale da odiare, velenosa e repellente allegoria di chi è del mondo – verminaio? Oppure da imitare, se sublime ipostasi di chi non lo è, di chi non vuole conformarsi alle prassi perverse e alle rozze ideologie dell’umano verminaio? Disse il Messia: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.” (Matteo 10.16). Passare (procedere, muoversi) al passo muto delle serpi: è forse un proposito o un ammonimento, a essere vigili e prudenti, per sopravvivere in questo mondo di lupi?

Neuma

La felicità è

una mariposa.

Un canto armeno.

Nella fragilità del tempo,

inframezzata da crepe, la pura melodia.

All’ inizio la felicità è definita con metafora copulativa una mariposa. Il termine spagnolo, preferito all’italiano “farfalla”, dà un valore aggiunto alla connotazione più evidente di “leggerezza”: vi conferisce un di più di esotico, di non comune, di non facilmente attingibile. Medesimo discorso vale per la seconda metafora: la felicità paragonata a un canto armeno, la cui partitura musicale è spesso indecifrabile per la moderna incapacità di comprendere i neumi. Neuma è termine greco che significa “cenno”. Derivato di νεύω (fare un  segno), nella notazione musicale medievale (anche armena) indicava ciascuno dei segni grafici, derivati dagli accenti prosodici greci e variamente composti tra di loro, che designavano una certa flessione (ascendente o discendente) della linea melodica o un certo modo di esecuzione. È parola accostabile ad altri termini greci: πνεύμα (“soffio”) e νόμος (“melodia”). E infatti: la felicità è infine definita pura melodia: insieme di suoni sublimi, ma segnati con grafemi di difficile decifrazione, anche perché si leggono (o più non si leggono) su quel manoscritto screpolato dal tempo che è la vita vissuta e segnata da incerta memoria.

 

III. Parte seconda.

Alla pagina 45 Katia Debora Melis fa iniziare la seconda sezione del Cuore di mussola, forse riconducibile a quanto si vede in quarta di copertina: una spiaggia sabbiosa che le autrici del libro e della foto intitolano Terreno imperfetto.  In capo al foglio bianco, due versi (virgolettati: ma sono dell’Autrice) che paiono una citazione a exergo, collocata in posizione quasi centrale: “Non sono sabbia. / Sono terra di mare”. Due versi che «dividono e saldano in un continuum la materia con lo spirito, le cose con la poesia, l’Io con la sabbia e la terra: elementi eterogenei se non opposti, ma legati da un’immagine identitaria comune, da un’unica sostanza».[2]

Haiku

Falena stanca.

Silenzioso notturno

sorvolare lento.

Lo Haiku è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo, composto da tre versi (per complessive diciassette more: la parola latina mora indica un’unità di suono che determina la quantità di una sillaba): un quinario, un settenario e il quinario finale. L’Autrice, particolarmente versata nella forma breve, aforistica, quella dei “passaggi minimi” (per dirla col titolo di un suo libro del 2014), ci presenta qui un lepidottero notturno, una falena. Insetto lontano assai dalla mariposa – felicità di Neuma, la falena è stanca: stanca del proprio sorvolare lento, (lentezza associabile a stanchezza? O a prudenza, circospezione, diffidenza?) del proprio “volare sopra”, del suo “attraversare a volo” un qualche cono di luce: un animale stressato, irrequieto, in burn out, in esaurimento emotivo. Sorvolare, volare intorno alla luce: allegoria della ragione, un lume che attrae l’allegorica falena, e rischiara, ma può anche bruciare?

 

Senryu

Scollinamento.

Prospettiva coperta

brusco planare

Il Senryū (dal nome del poeta Karai Senryū di Edo, che per primo ne pubblicò una raccolta) ha lo stesso schema metrico dello Haiku, ma non contiene né il Kigo (il riferimento a una precisa stagione), né il Piccolo Kigo (l’indicazione di una parte del giorno). Con un tono che oscilla tra la satira e l’ironia, tra il divertimento e il fastidio, descrive la natura umana, focalizzando l’attenzione sulla gente, di cui ritrae le caratteristiche, la psicologia, le motivazioni, i comportamenti: e nel rilevarne le contraddizioni e i paradossi, il riso diventa amaro.[3]

Nel quinario in apertura, una sola parola, in stile nominale; poi, il punto fermo. Scollinamento è l’atto e l’effetto dello scollinare, ossia del passare volando da un versante all’altro di una collina. Mi pare di cogliere un che di euforico e di liberatorio, in questo volare alto e oltre…ma… che cosa ci attende, oltre? Un’altra montagna? Un muro? Sia quel che sia, la prospettiva risulta coperta. Cieca. Sicché l’esito dello scollinamento sarà un brusco planare. Potrebbe sembrare una notazione di diario intimo, riferito a qualche vicenda personale, se non fosse per quel titolo: Senryu, che segnala una forma metrica, ma anche un tipo di componimento in cui s’intende rilevare, tra la satira e l’ironia, tra il divertimento e il fastidio, le contraddizioni e i paradossi della gente. E allora lo scollinamento, la prospettiva coperta, il brusco planare potrebbero essere un’allegoria. Del capitalismo maturo? Del suo voler andare sempre oltre, verso la qualità totale, ma senza una prospettiva, alla cieca? Un’allegoria ammonitoria, quando si evoca l’esito infausto dello scollinamento, ossia il brusco planare, un traumatico perdere quota, abbassarsi, scendere in basso senza più controllare il proprio volo, i propri raffinati strumenti di una iper-tecnologia che si rivolta contro il proprio creatore?

 

  1. Infine

Non è poesia

se dietro

non c’è una cicatrice

– anche di pura bellezza –

anche se non è la tua.

È l’ultimo testo del libro. Un sigillo. Emblema della poesia, leggera come la mussola, ma che deve pungere, nella sua genesi e nel suo esito, deve presupporre una ferita (foss’anche di pura bellezza), deve lasciare cicatrici, che siano del poeta o d’altri. Gli altri: quei Tu, quei Voi, quelle seconde persone, siano esse al plurale o al singolare, siano ben specificate (il Tu-Lettore nella Fine del sono americano: “E tu dove sei? / Da che parte stai di ogni terribile muro?”) o volutamente indefinite (il tu privato di Trenta giorni: “E tu / che cosa vuoi che siano?”, o di Tra il mare e lo scoglio) …quei Tu (e anche quei Voi) che includono o escludono un Io, sempre e comunque messo in questione, soprattutto quando si fa coralmente Noi. Come in Un poeta in mezzo alla guerra, dove l’Io (Io mi trovo in sicurezza) diventa un Noi: noi poeti che un tempo, ma per l’ultima volta, “prima della guerra”, “vedemmo il mare / come cristallina meraviglia”. Un Io che vorrebbe farebbe direbbe solo cose belleE invece no (è il titolo una poesia – che, come le altre sopra citate, stanno in fine di libro). Un Io poetante che ha un cuore di mussola, protettivo, morbido, che vuol richiamarsi all’infanzia, alla purezza d’animo e di ideali, ma è cuore a metà, dimidiato nella forma e minacciato dai rovi che lo inscrivono, possono pungerlo, provocarvi ferite.

E dunque:

Non è poesia

se dietro

non c’è una cicatrice

[1] Le parole comprese tra virgolette caporali riportano testualmente quanto con estrema gentilezza mi fece sapere per iscritto l’Autrice, in risposta ad alcuni chiarimenti richiesti.

[2] Come già dichiarato nella nota precedente, le parole comprese tra virgolette caporali riportano testualmente quanto con estrema gentilezza volle farmi sapere per iscritto l’Autrice, in risposta ad alcuni chiarimenti richiesti.

[3] Cfr. Fabia Binci, Cos’è un Senryu (URL: https://docplayer.it/14886886-Cos-e-un-senryu-di-fabia-binci.html)

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