Il romanzo “Le stelle fredde” di Guido Piovene (1907 – 1974) è quasi una sofferta meditazione sulle condizioni esistenziali dell’uomo di oggi (forse perfino oltre il post – moderno), esposta senza preoccupazioni di ordine prettamente “narrativo”, nel senso che il romanzo vuole essere voce diretta, forse meglio, quasi “pensiero scritto” del travaglio interiore dell’autore, attento a ricostruire un lucido, ma piuttosto negativo, bilancio delle sue esperienze e dei casi degli altri uomini. Il protagonista di “Le stelle fredde” narra come, dopo aver troncato ogni legame con il passato, specialmente quello affettivo, in seguito all’abbandono dell’amante, si ritira in campagna, nella casa avuta in eredità dal nonno, e dove sta, solo, suo padre. Ma il rapporto con il padre non sarà per niente facile; per questo egli si isolerà sempre di più e andrà a vivere nella stanza più lontana e scialba del palazzo intorno al quale si estende una campagna ampia e luminosa. Ma nel palazzo e fuori succedono cose davvero strane; fra l’altro un giorno viene trovato morto, ucciso in circostanze misteriose, una persona che precedentemente aveva tentato di uccidere il protagonista. Questi allora, sospettato di essere l’assassino, si nasconde in un luogo solitario dove incontra (per caso?) un poliziotto – filosofo e, qualche tempo dopo, gli appare l’ombra del grande scrittore russo Fedor Dostoevskij la quale gli fa rivelazioni angosciose sull’Aldilà: quel mondo non è il regno della quiete e della pace tanto bramate quando si è ancora in terra, non l’abbandono felice in Dio, ma un indefinito dolente vagare di anime assillate dai ricordi della vita terrena che anelano a raggiungere nuove forme di reincarnazione. Quando poi Fedor Dostoevskij svanisce di nuovo, il protagonista si dedica ad una complicata schedatura di oggetti e di colori che vede intorno a sé: quasi un nuovo e fantastico repertorio di tutte le cose del mondo, fra gli incerti confini della vita e della morte.
“Le stelle fredde” è un meditare, forse carico di ansia latente, sul valore delle cose e della vita, dell’essere e del morire, un’astrazione molto surreale e velatamente ambigua, in un clima – atmosfera di sospensione e di magia. L’Aldilà appare come una metafora dolorosa che vuole rappresentare la società in terra con le sue ombre gelide, le sue “estinzioni furenti, spettrali”, le sue “stelle fredde” in un cielo notturno sopra un’umanità che ha perso ormai il senso dei valori più alti e la presenza dell’Eterno.
Anche, e soprattutto, in questo romanzo la narrativa è, per Guido Piovene, non proprio un qualcosa di professionale e di schematico quanto in realtà l’espressione di un impellente bisogno interiore di comunicazione, forse la necessità di una testimonianza intensa del proprio io a contatto con il mondo e con gli uomini che lo abitano, di certo al di fuori di ogni modulo ( o moda) prestabilito e, decisamente, di ogni considerazione di mestiere.
Francesca Rita Rombolà

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