“L’Avatarwriter scrive il tuo libro come fossi tu, pur non essendo tu”. Dialogo con Emanuele Cangini, scrittore, divulgatore scientifico, Avatarwriter

4 Febbraio 2025

Emanuele Cangini nasce a Modena. E’ giornalista, curatore e revisore di testi, divulgatore scientifico per la rivista “Scienza e conoscenza”, recensore e articolista, critico letterario etc. Collabora con diverse case editrici fra cui Macro Edizioni. Coadiuva e assiste autori e manager nell’ideazione e progettazione di libri biografici, testi di stampo didattico e opere di ampio carattere documentale. Ha corretto e curato la prefazione, a cura del professor Vittorio Sgarbi, al libro “I codici della Logogenesi Versione Albedo” degli autori Zancanella e Bianco e curato l’opera omnia di Eliano Cominetti, di cui ha steso anche la prefazione, “I signori rappresentanti si ricevono il martedì”. Come curatore ha supervisionato moltissimi autori. Emanuele Cangini è autore dei libri – raccolta “Geni del passato” e “Il romanzo della Scienza”, usciti in formato e – book rispettivamente nel 2017 e nel 2018, editi da Macro Edizioni. Nel 2019 esce il suo terzo libro, “Ad Astra per Logos”, nei titoli di Editrice Stilgraf. Sempre per Stilgraf Editrice, scrive il libro del quarantennale “Stilgraf: una storia lunga quaranta anni” (ottobre, 2020). Dal 2018 Emanuele Cangini riveste anche la figura di Avatarwriter. Il suo sito internet è https://www.emanuelecangini.co/

Francesca Rita Rombolà dialoga con Emanuele Cangini di arte, di scienza e sulla Bellezza.

D – Emanuele Cangini è un personaggio con interessi e competenze in discipline varie; qual’è, secondo lui, il possibile (se c’è) nesso fra scienza e arte?

R – Beh, credo che una domanda come questa sia una di quelle questioni che attanagliano l’umanità sin dalla notte dei tempi e che, per essere esaustivamente trattata, richiederebbe un trattato. Ne consegue che, affinché sia possibile perseguire una replica accettabilmente esaustiva, si dovrebbe disporre di spazi ben più ampi rispetto a quelli concessi da un’intervista ordinaria e canonicamente intesa. Ciò nonostante, cercherò di produrmi in un esercizio di sintesi che possa, quanto meglio, rendere merito a un quesito di tale portata. Dunque, cercando di evitare ridondanti, faziose e ricercate citazioni – che, spesso, più che argomentare efficacemente assolvono a una funzione molto più egoistica e a volte pure a esercizi di stile circensi e auto-celebrativi – sono del parere che le due aree tematiche (o, forse, meglio sarebbe definirli approcci, quindi intendibili più come forme pensiero o strutture sinaptiche, ossia modalità di decodifica della realtà) siano da vedersi in maniera non duale, diadica e oppositiva, ma secondo un’ottica complementare e compenetrativa. Mi spiego meglio: vi può essere arte laddove vi è scienza e, per converso, vi può essere scienza laddove regna l’arte. Facile pensare, giusto per fare un esempio di facilissima e immediata focalizzazione, ai dipinti e disegni di Leonardo (ma anche ad altri di scuola leonardesca, rifacentesi quindi alle medesime istanze ed esperienze), prodotti figurativi nei quali convergono prepotentemente tanto elementi artistici – e mi pare inutile sottolineare quali – quanto elementi di carattere scientifico. Pensiamo ora alla semplicissima equazione di Einstein (E = mc2), oppure alla meno nota equazione che lega l’insieme dei numeri reali e dei numeri complessi (e/elevato i phi greco/ = -1) … ebbene, non è facile scorgere in esse, repentinamente, una storia di simmetria, di equilibrio di “savia distribuzione di pesi”, che rimanda al baricentro della cultura greco – classica e che permette la coesistenza entro il medesimo campo di realtà di autentica pregevolezza estetica e profonda conoscenza scientifica? Potrei proseguire per pagine e pagine. Ecco, diciamo così: la risposta secca, e quasi dal taglio aforistico, alla domanda posta in esordio è questa: il nesso tra arte e scienza non è solo una modalità del pensiero, ma è anche, e forse soprattutto, un luogo dell’anima. Arte e scienza, possono essere pensate, e contemplate, come uno spazio del pensiero, un orizzonte di senso, una possibilità di declinazione del reale. Esse costituiscono un riscatto del fenomenico verso la creatività e un riferimento orientativo della creatività verso il fenomenico. Ricorderò per sempre – e con ciò vengo meno al buon succinto proposito del non cadere in indesiderate citazioni, ma ahimè non potevo esimermi – quando, ai tempi delle scuole elementari, il babbo e la mamma mi regalarono due libri di Giulio Verne: “Dalla Terra alla Luna” e “Viaggio al centro della Terra”. Ecco, sì, direi che la prima percezione che ebbi della vicendevole connessione tra scienza e arte, la ebbi esattamente in quel frangente di lettura magica, profonda e appassionata. Correva l’anno 1985, e il mondo che si viveva, al contrario di quello di oggi, era pieno di promesse.

D – Vuole raccontare qualcosa sui suoi libri?

R – Certamente, molto volentieri. Questa “trilogia” – che poi a onor del vero non è tale, perché le tre opere non sono nate sulla base di un progetto comune e di una visione accomunante – compendia succintamente i miei più che trentennali studi “matti e disperatissimi” in Astrologia. I tre libri fissano istanti diversi, ispirati da una metodologia d’indagine non isotropa e da prospettive asimmetriche, seppur coesistenti entro un medesimo quadro “investigativo”. In senso cronologico progressivo, i primi due e – book si occupano di esporre al lettore i legami tra scienza e Astrologia; il primo, “Geni del passato”, dal taglio più saggistico, li inserisce all’interno della narrazione di curiose scoperte scientifiche; il secondo, “Il romanzo della scienza”, ripropone lo stesso schematismo, votandosi però a uno stile narrativo volutamente romanzato, con il chiaro intento di trasmettere al pubblico una dimensione stilistica maggiormente evocativa e deduttiva. Il terzo e ultimo libro, “Ad Astra per Logos”, nasce come una sorta di collage di tanti pezzi da me scritti e distribuiti nel tempo, quindi reca in sé tutta la preziosità dell’artigianalità, intesa come sartoria editoriale, e tutta la precarietà di un elaborato che non è stato concepito e pensato come espressione monolitica di un tratto continuo e lineare del pensiero. Le tre opere, come dicevo poc’anzi, sono la fedele e concreta rappresentazione di tre differenti modalità d’interpretazione astrologica e, con ciò, altresì, di tre diversi livelli di ordine: se, nei primi due, lo studio astrologico si manifesta più superficialmente, ossia come espressione di semplici valenze solari, nel terzo la ricerca si fa più approfondita, per certi aspetti quasi speleologica, andando a porre in evidenza una dimensione a carattere mitologico ed energetico. La chiave di lettura è tanto simbolica quanto alchemica e, attraverso la lente di lettura di un linguaggio opportunamente calibrato all’occasione, al lettore è consentito accedere a un nucleo di significato astrologico molto ricco e molto ampio, non certamente ottenibile attraverso un accostamento frettoloso e negativo. Al pari di uno strategemma, “sfuocando” la lettura si crea una sorta di apertura, un interstizio, un varco che rende possibile l’accesso a un’altra dimensione – nascosta sino a poco prima – che conduce a una conoscenza esoterica celata. Un segno zodiacale non è più dunque solo un Segno, ma diventa un evento informazionale e (un campo) informativo, una fase di un circuito di sviluppo energetico nel quale accadono cose ben precise e dinamiche interconnesse. Più di questo, non svelo. Sto lavorando, attualmente e tacitamente, a un progetto editoriale che sarà lo sviluppo di “Ad Astra per Logos” e che, per merito dell’utilizzo di un preciso pacchetto conoscitivo (Archeometria), renderà possibile studiare il soggetto uomo come “risultante tensoriale” di campi informativi interagenti. Progetto difficile, complesso, laborioso. Ma molto ambizioso.

D – Lei è anche un Avatawriter, figura professionale piuttosto nuova nel panorama dell’editoria; può spiegare, in sintesi, di cosa si tratta?

R – Questa è davvero una bella storia, che vede coinvolte anche figure per me molto importanti. La faccio breve: a differenza del Ghostwriter, il quale, etimologicamente, è “lo scrittore nell’ombra” e che esercita, coerentemente, un ruolo passivo e di semplice esecuzione (centrifugo), l’Avatawriter (marchio da me brevettato e depositato) identifica un ruolo attivo, esplicito, “centripeto”. Esso è, in buona sostanza, il veicolo di cui il cliente si serve affinché il libro divenga quanto più simile a quello che avrebbe scritto lui, di suo pugno. L’Avatar entra nell’anima: vive i drammi, le sofferenze, i detti e i non detti, i taciuti, i timori, il lato oscuro del cliente e, ancor prima di scriverlo, lo vive, lo attraversa, lo interiorizza, dando vita a una specie di metempsicosi. l’Avatarwriter scrive il tuo libro come fossi tu, pur non essendo tu. L’Avatarwriter è il custode dello scrigno dei segreti degli uomini.

D – Che cos’è, e cosa non è, la Bellezza per Emanuele Cangini.

R – La Bellezza è il fodero dell’autenticità. La Bellezza non è, e non potrà mai essere, la distorsione del principio di verità e coerenza tra fuori e dentro, tra sopra e sotto, tra forma e contenuto. Bellezza è continuità. Bellezza è presente assenza e assenza presente.

D – La Poesia, i poeti, hanno un posto nella sua vita professionale, ma soprattutto nella sua vita in generale?

R – Altroché: l’avevano, l’hanno, l’avranno. Dovessi elencare tutti i libri di poesia letti e tutti i poeti che custodisco nel cuore, temo servirebbe una raccolta enciclopedica. Essi hanno, da sempre, orientato il mio sentire e nutrito il mio pensare, alimentando la sacra fiamma della curiosità, della sensibilità e della silente introspezione. La metrica poetica è “l’unità di misura” dell’istante, il cifrario attraverso il quale il vuoto e la sospensione mutano da una condizione originaria di instabilità a una più fertile e materna di possibilità. Di recente sto rileggendo – in aggiunta ai testi letti ed elaborati per lavoro – per passione e nostalgia “Il paradiso perduto”, di Milton, e il “Libro rosso”, di Jung: sono, essi, veramente icastici per quanto riguarda la Poesia, straordinari, per non dire unici, nel creare traiettorie croccanti e caravaggesche che, da un lato, innescano una catabasi verso il regno ctonio della perdizione, dall’altro favoriscono e accendono una poderosa spinta ascensionale verso tinte del pensiero erotiche, “vaghe e indefinite”. La Poesia è un qualcosa che va colto, catturato e protetto. Tante volte, per non dire tantissime, mi capita di scorgere scenari e barlumi di poesia ancora in stadio larvale in tanti clienti, e quando ciò accade, quasi fossi una sorta di fotografo della natura, cerco di immortalare la cosa, di portarla a galla, di valorizzarla, raccontandola ancor prima a me che non al cliente. Tuttavia, comporre poesie, come tanti dicono, è soluzione linguistica tutto sommato scorretta: dice Mario Ruoppolo nel film “Il Postino”, di Troisi, rivolgendosi, con composta e romantica disperazione, a un tanto stupito quanto spiazzato Pablo Neruda, che “la Poesia non è di chi la scrive … ma di chi gli serve”; ed è proprio così che accade, quando usciamo dalla sfera meramente contemplativa della poesia, per tuffarci nelle sue coniugazioni più pratiche e pragmatiche. Perché sì, la Poesia non deve appartenere, ma deve servire. E quando serve, statene sicuri, essa è ben di tutti.

Francesca Rita Rombolà

Emanuele Cangini

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